L’infortunio dell’infermiere no vax è pienamente indennizzabile dall’Inail. L’indicazione, diramata dall’Istituto con istruzione operativa n. 2402/2021, peraltro abbastanza ovvia alla luce delle norme e della giurisprudenza, oltre a risolvere una questione che ha avuto forte attenzione mediatica, consente di valutare anche l’ambito della responsabilità del datore di lavoro in tale caso nonché di fornire utili indicazioni alle aziende.
Premessa: la questione
La questione dell’indennizzo Inail per i lavoratori del settore sanitario che contraggono il COVID-19 e che non hanno aderito alla campagna vaccinale è assolutamente nota.
Ormai altrettanto nota è la posizione recentemente assunta dall’Inail circa la piena indennizzabilità dei casi di specie.
È necessario, tuttavia, ripercorrere vari aspetti della questione per comprendere esattamente non solo perché i casi di coronavirus di origine lavorativa debbano essere regolarmente riconosciuti anche nel caso in cui il soggetto abbia rifiutato di sottoporsi al vaccino, ma anche per ricavare utili suggerimenti per i datori di lavoro, al fine di valutarne eventuali responsabilità nel caso di contagio.
L’infortunio al no vax si paga: ma perché?
La richiesta all’Istituto è stata formulata da un ospedale di Genova e ha riguardato essenzialmente gli aspetti relativi alla ipotesi in cui il personale infermieristico che non abbia aderito alla profilassi vaccinale contragga il coronavirus.
In altre parole, veniva richiesto all’Istituto se esso riconoscesse l’infortunio sul lavoro per tale personale e se, quindi, il comportamento del datore di lavoro, ove si manifestasse un caso di COVID-19 tra lavoratori che non avessero aderito alla campagna vaccinale, avrebbe dovuto essere diverso da quello consueto nel caso di un infortunio sul lavoro.
Va notato che erano estranee alle competenze dell’Istituto le richieste riferite alle eventuali responsabilità civilistiche e deontologiche riferite a tale personale, pur se, come vedremo, l’Istituto ha ritenuto di esprimersi anche con riferimento alle responsabilità del datore di lavoro nel caso di specie.
Non sfugge, evidentemente, il rilievo della questione, vieppiù in presenza di una quota non irrilevante di lavoratori che, pur appartenenti al settore sanitario, ha rifiutato il vaccino.
Colpa del lavoratore? Non rileva per l’indennizzo
È noto, peraltro, che non esiste obbligo di sottoporsi al vaccino, nemmeno per il personale a maggior rischio: tale obbligo non è esplicitamente fissato dalla Legge (e, anzi, vi è una riserva di Legge in materia di trattamenti sanitari ex articolo 32, Costituzione), né è in alcun modo possibile ricavarlo da altre norme, vieppiù dall’articolo 20, D.Lgs. 81/2008[1].
Esso, infatti, fa riferimento all’obbligo di contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, nonché, fra l’altro, al dovere di sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal D.Lgs. o comunque disposti dal medico competente, ma non è dato ricavarne alcun obbligo di sottoporsi alla profilassi in questione[2].
Anche qualora si ritenga che, essendo il vaccino fortemente raccomandato, vieppiù per i lavoratori dell’ambito sanitario, il soggetto che la rifiuti e si contagi incorra in una colpa, dal punto di vista Inail tale aspetto non assume particolare rilevanza: infatti, la Suprema Corte (si veda, ad esempio, Cassazione n. 17917/2017[3]) ha più volte ricordato che la colpa del lavoratore non rileva ai fini dell’indennizzo Inail.
L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro fa, infatti, riferimento, ai fini della limitazione del suo ambito di operatività, alla nozione di “occasione di lavoro” (articolo 2, D.P.R. 1124/1965) e, quindi, non considera ragione ostativa alla sua operatività la colpa del lavoratore.
La violazione di norme antinfortunistiche da parte del lavoratore deve essere considerata un comportamento sicuramente illecito, e non a caso, come si è visto, il T.U. 81/2008 responsabilizza il lavoratore da tale punto di vista, ma l’illiceità del comportamento non preclude comunque in alcun modo la configurabilità dell’infortunio come evento indennizzabile, poiché il sistema protettivo approntato dal Legislatore sulla scorta del dettato costituzionale si prefigge, anzitutto, lo scopo di proteggere, realmente, il lavoratore da ogni infortunio sul lavoro, pur se esso derivi da sua colpa.
Il rischio elettivo esclude l’indennizzo, ma non è questo il caso
A tal fine, nemmeno qualora la colpa del lavoratore sia esclusiva causa dell’evento viene meno l’operatività della assicurazione sociale, che non è operante unicamente nel caso di rischio elettivo.
L’Istituto ricorda la costante nozione accolta in giurisprudenza, ove si prevede che esso sia connotato dal concorso simultaneo dei seguenti elementi caratterizzanti:
- un atto volontario (in contrapposizione agli atti automatici del lavoro, spesso fonte di infortuni), ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive;
- l’atto deve essere diretto a soddisfare impulsi meramente personali (il che esclude le iniziative, pur incongrue, e anche contrarie alle direttive datoriali, ma motivate da finalità produttive);
- deve trattarsi, altresì, di un atto che affronti un rischio diverso da quello lavorativo al quale l’atto stesso sarebbe assoggettato, per cui l’evento non ha alcun nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa.
È di tutta evidenza che il rifiuto del lavoratore di sottoporsi al vaccino, anche ove poi si contagi, non è in alcun modo avvicinabile al rischio elettivo, poiché il lavoratore è pienamente in occasione di lavoro e sta pienamente svolgendo la propria prestazione, sicché non si vede come si possa parlare di rischio diverso da quello lavorativo[4].
Ciò, vieppiù, lo si ripete, poiché il vaccino non è obbligatorio ed è, quindi, impossibile, e qui citiamo testualmente l’istruzione operativa Inail del 1° marzo 2021, “subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato ad un trattamento sanitario quale il vaccino che ancorché fortemente raccomandato dalle autorità non è obbligatorio”.
Il datore di lavoro non risponde dell’infortunio occorso al no vax? Non è vero, o almeno non sempre
Una volta superata la questione circa l’indennizzabilità dell’evento, va affrontata la questione della responsabilità del datore di lavoro nel caso di contagio occorso a personale sanitario che abbia rifiutato la vaccinazione.
È il caso di ricordare, peraltro, che il fatto che l’evento occorra a personale sanitario rende operante una presunzione di contagio in ambito lavorativo (Inail, circolare n. 13/2020), ma tale presunzione non è assoluta e, in altre parole, occorrerà sempre che venga riconosciuto il nesso del contagio con l’attività lavorativa.
Una volta fatta tale precisazione, va detto che, nel caso in cui il coronavirus sia riconosciuto di origine lavorativa, la questione della responsabilità del datore di lavoro richiede diverse precisazioni.
L’Inail, a tale proposito, ricorda che “il comportamento colposo del lavoratore può ridurre oppure escludere la responsabilità del datore di lavoro facendo venir meno il diritto del infortunato al risarcimento del danno (differenziale NdA) nei suoi confronti, così come il diritto dell’Inail ad esercitare il regresso nei confronti sempre del datore di lavoro”.
Tale indicazione va, tuttavia, rettamente intesa.
È da ricordare, in primis, che l’articolo 29-bis, D.L. 23/2020, convertito dalla L. 40/2020, prevede che, “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. La norma precisa che, qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
A proposito di responsabilità datoriale, l’ordinanza di Cassazione n. 8988/2020, in uno con una giurisprudenza piuttosto consolidata, ricorda che “l’art. 1227, comma primo, c.c. (a norma del quale “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguente che ne sono derivate’) si applica anche alla materia degli infortuni sul lavoro: sia perché nessuna previsione normativa consente di derogarvi; sia perché la legge impone anche al lavoratore l’obbligo di osservare i doveri di diligenza a tutela della propria o dell’altrui incolumità: tanto stabiliscono sia l’art. 2104 c.c., sia l’art. 20, d. lgs. 9.4.2008 n. 81”.
Tuttavia, “nella materia del rapporto di lavoro subordinato, l’applicazione dell’art. 1227 c.c. va coordinata con le speciali previsioni che attribuiscono al datore di lavoro il potere di direzione e controllo, ed il dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori. Dall’esistenza di quel potere e di quel dovere, questa Corte ha tratto il corollario che anche quando la condotta della vittima di un infortunio sul lavoro possa astrattamente qualificarsi come imprudente, deve nondimeno escludersi qualsiasi concorso di colpa a carico del danneggiato in tre ipotesi”.
Fra di esse vi è quella in cui “l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza”.
In altre parole, ricorda la Suprema Corte, “il datore di lavoro ha il dovere di proteggere l’incolumità del lavoratore nonostante l’eventuale imprudenza o negligenza di quest’ultimo, con la conseguenza che la mancata adozione da parte datoriale delle prescritte misure di sicurezza costituisce in tal caso l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso”.
Ecco, allora, il punto fondamentale: al di là di come si legge l’articolo 29-bis, cioè se si ritiene pacifico che il rispetto dei protocolli esaurisca gli obblighi di cui all’articolo 2087, cod. civ., una cosa è certa: non potrà invocare la riduzione di responsabilità il datore di lavoro che sia manchevole rispetto ai propri obblighi di sicurezza, ancorché il lavoratore abbia rifiutato la profilassi vaccinale perché l’inadempimento del datore di lavoro elide la responsabilità del lavoratore, vieppiù nel caso di specie in cui la vaccinazione, pur fortemente raccomandata, non abbia carattere di obbligatorietà.
Il punto di attenzione: è allora chiaro che il datore di lavoro che non osservi le prescrizioni di cui ai noti protocolli non potrà invocare a sua difesa il fatto che il lavoratore abbia rifiutato la vaccinazione.
Lavoratore vaccinato o no, il datore di lavoro deve…
Alla luce di ciò che abbiamo detto, i consigli per il datore di lavoro sono chiari, almeno nella materia che ci riguarda.
In primis: rispettare scrupolosamente l’articolo 53, D.P.R. 1124/1965, che prevede l’obbligo di denunciare l’infortunio indipendentemente da ogni valutazione circa l’indennizzabilità dell’evento.
In altre parole, ove il datore di lavoro riceva un certificato medico di infortunio per un proprio dipendente non deve effettuare alcuna valutazione, ma trasmettere immediatamente la denuncia di infortunio.
Quanto alla responsabilità del datore di lavoro nel caso di infortunio occorso al lavoratore che abbia rifiutato la vaccinazione, il punto è sempre il solito: l’azienda deve adempiere col massimo scrupolo agli obblighi posti dai protocolli di sicurezza. Deve attuarli. Deve mantenerli. Deve vigilare scrupolosamente sulla loro adozione da parte dei lavoratori.
Qualora adempia a tutti questi obblighi, essa sarà esente da responsabilità sia che il lavoratore sia vaccinato (e, sciaguratamente, si contagi sul luogo di lavoro, perché rientri magari in quella piccolissima percentuale di soggetti che contrae il virus nonostante la vaccinazione) sia che il lavoratore non abbia voluto aderire al vaccino.
Ove, viceversa, il datore di lavoro sia inadempiente a tali obblighi, potrà essere chiamato a rispondere in sede di regresso dall’Istituto e per il risarcimento danni da parte del lavoratore, anche se questi non avrà effettuato la profilassi vaccinale.
Conclusioni
Le questioni aperte in ordine al rapporto tra vaccinazione e mondo del lavoro sono numerose e afferiscono in gran parte a materie estranee alle competenze dell’Inail: si pensi alla possibilità, per il datore di lavoro, di imporre un obbligo vaccinale o alla licenziabilità del lavoratore non vaccinato ritenuto inidoneo e che non possa essere ricollocato in mansioni ritenute compatibili.
Con queste questioni si intersecano quelle relative alla privacy: il Garante privacy (si vedano le Faq del 17 febbraio 2021) ha precisato che il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti COVID-19.
Insomma, è banale dirlo, ma occorre l’intervento del Legislatore: il problema non è cambiare le norme, ma prima di tutto chiarirne la portata in un contesto diverso da quello in cui sono state pensate.
Adattare un quadro legislativo (e giurisprudenziale) complesso come quello in materia di sicurezza sul lavoro a un evento assolutamente imprevedibile come quello della pandemia è operazione talmente complessa da avere margini di valutazione davvero troppo ampi per potere fornire qualsivoglia certezza e, in una situazione come quella odierna, di certezze ce n’è davvero bisogno.
[1] Per una trattazione a livello generale del principio di autoresponsabilità del lavoratore, si veda R. Zanino, Infortuni e principio di autoresponsabilità del lavoratore, in “Il giurista del lavoro” n. 11/2020.
[2] A tal proposito si veda P. Pascucci, A. Delogu, L’ennesima sfida della pandemia Covid-19: esiste un obbligo vaccinale nei contesti lavorativi?, in “Diritto della Sicurezza sul Lavoro” n. 1/2021, ove si legge, fra l’altro, che “L’obbligo vaccinale, in sostanza, non può fondarsi neppure sull’art. 20 del d.lgs. n. 81/2008, il quale, al di là del principio di cui al primo comma (di sicura rilevanza sul piano interpretativo, ancorché non presidiato da sanzioni), si limita ad imporre al lavoratore un obbligo di osservanza delle disposizioni impartitegli, ma non è una fonte autonoma di obblighi che ne prescindano, e di certo non può garantire il rispetto della più volte evocata riserva di legge”, nonché che “l’obbligo del lavoratore di attenersi a certi comportamenti anche contro la propria volontà può valere per l’utilizzo dei dispositivi di protezione o per le modalità organizzative di esecuzione della prestazione, ma non per quanto riguarda trattamenti sanitari la cui obbligatorietà non sia espressamente sancita dalla legge”.
[3] Si veda F. Vazio, Infortunio e colpa del lavoratore: i riflessi in tema di responsabilità, in “Il giurista del lavoro” n. 8-9/2020.
[4] Cfr. Cass. n. 6370/2020, commentata in F. Vazio, Rischio elettivo, art. 2087 cod. civ e infortunio: la Cassazione mette a posto il puzzle e il compito del datore di lavoro non è facile, in “Il giurista del lavoro” n. 4/2020.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.